la memoria riaffiora...

… I disegni con le donne e i loro ampi vestiti, gli ombrellini da sole, i fiori dei giardini incolti sembrano restituire alle immagini – accentuandola – una fragilità che è quella del tempo che è realmente passato, una lontananza che rende le figure ombre, fantasmi, tracce...

Sandra Lischi

 

Sandra Lischi per la mostra presso la “Galleria dei Giorni”

Pisa, febbraio 1981

La prima mostra di Fabrizio Pizzanelli, nel 1978, evidenziava una ricerca di cui i paesaggi esposti non erano che uno dei momenti: la campagna toscana, il suo susseguirsi di linee orizzontali appena interrotte dai segni verticali dei pali della luce e degli alberi, non era oggetto di una scelta realistica tradizionale – quella paesaggistica appunto – ma, piuttosto, occasione di una ricerca sui rapporti fra fotografia e grafica, di riflessione e sperimentazione sulla sintesi e sui tagli operati dalla macchina prima, dal disegno e dall’incisione poi. I paesaggi, alla fine, non erano più tali, pur mantenendo “indizi” di realtà; divenivano segni neri selezionati con parsimonia, linee sospese in equilibrio fra il terreno ondulato e il bianco latte del cielo di carta.

I disegni esposti ora, a distanza di tre anni, confermano una ricerca sulle tecniche di riproduzione del reale che è, stavolta, ancora più stratificata e complessa. Vi interviene, intanto, la presenza umana; e le immagini di partenza non sono il reale fotografato dall’autore (che poi lo reinterpreta disegnandolo) ma sono già interpretazioni del reale.

Il materiale di partenza è infatti costituito da un “corpus” di vecchie fotografie del 1919-20, realizzate a Torre del Lago (ritrovo, allora, di post-macchiaioli e di molti artisti italiani e stranieri) e di cui il pittore Ferruccio Pizzanelli si serviva per la propria produzione pittorica. A questa ricognizione fra le vecchie immagini di famiglia, fra le foto scattate dal nonno pittore, si sovrappone l’interesse per queste insolite riprese all’aria aperta e in piena luce, per queste inquadrature inconsuete anche per l’epoca, le donne coi vestiti gonfiati dal vento e gli ombrellini giapponesi a riparo dal sole e i bambini accovacciati sotto l’ombra di pergolati; figure sorprese nei movimenti più naturali e quotidiani e nei particolari che più interessavano al fotografo-pittore, anche a costo di tagliar via un pezzo di spiaggia o del giardino o, più arditamente, il volto o un fianco della persona ritratta.

A questa prima, lontana selezione finalizzata alla pittura, Fabrizio Pizzanelli sovrappone, sessant’anni più tardi, un’altra selezione che procede dalle vecchie fotografie al disegno. Riproduce così manualmente – e coi tempi lenti e lunghi di un accurato disporsi di segni a matita – una realtà remota che era stata riprodotta istantaneamente e meccanicamente; e nel far questo seleziona, taglia e sintetizza di nuovo. Alle macchie chiare e scure della fotografia sostituisce, sui grandi fogli di carta, i segni volutamente incompleti e volutamente “pallidi” di particolari e di figure isolate, messaggi che richiedono l’attenta partecipazione di chi guarda, proprio per la loro incompletezza, per un’impressione di evanescenza che costringe a “spiare” con cura queste tracce del passato.

Realizzando un “unicum” da un supporto riproducibile come la fotografia, Pizzanelli restituisce alle cose rappresentate quell’ “aura” magica di irripetibilità che la riproduzione tecnica aveva loro sottratto ma nello stesso tempo recupera alla storia presente una serie di immagini fotografiche deperibili, mortali. I disegni con le donne con i loro ampi vestiti, gli ombrellini da sole, i fiori dei giardini incolti sembrano restituire alle immagini – accentuandola – una fragilità che è quella del tempo che è realmente passato, una lontananza che rende le figure ombre, fantasmi, tracce. E, insieme – perché la ricognizione di Pizzanelli non è solo a ritroso – sintomi di una ricerca teorica e tecnica presente e attuale, anche se intrecciata con la memoria e la storia.