quotidiane rarefazioni
Orientalismi, giardini, padiglioni di peonie
Fabrizio Pizzanelli niente nasconde del mestiere dell’incisore… nelle sue acqueforti riesce a trasmettere il senso della costruzione di un complesso sistema di segni disciplinato in scrittura e l’incanto di una scrittura in grado di originare, per propria forza poetica, ulteriori registri interpretativi.
Alessandro Tosi
Orientalismi, giardini, padiglioni di peonie
Barbara Henry, Scuola Superiore di Studi S.Anna
Dal catalogo “Quotidiane rarefazioni, acqueforti di Fabrizio Pizzanelli”
Museo della Grafica, ETS edizioni, Pisa 2016
None of us is outside or beyond geography,
none of us is completely free from the struggle over geography
that struggle is complex and interesting because is not only about soldiers and cannons
but also about ideas, about forms, about images and imagining
Edward Said
Nella cartografia antica i luoghi inesplorati (…) erano spesso indicati
con una indefinita locuzione, che solo avvertiva hic sunt leones, qui ci sono i leoni,
a dire tutta la fierezza di quella terra non battuta dal piede umano.
I confini dello scibile (…) scolorano per questo in un mondo primordiale e incolto,
dove la natura non domata è soverchia rispetto a qualsiasi regola
Andrea Marmori
Incipit del testo in catalogo della mostra “Hic sunt leones”
Studio Gennai, 26 febbraio – 31 marzo 2011, Pisa
It is not down in any map; true places never are
Herman Melville, da Moby Dick
Forte come la morte è l’amore
Cantico dei Cantici
Le acqueforti, le acquetinte, le puntesecche di Fabrizio Pizzanelli sono i frutti maturi di una sperimentazione originale che al contempo conosce e addita ad allievi/e, cultori e cultrici d’arte i sentieri sicuri della grande tradizione grafica nazionale e internazionale, come fa un esploratore, esperto e affidabile, di un territorio in trasformazione. Se questo è vero, ha vieppiù senso per chi scrive onorare i linguaggi disciplinari e tecnici andando oltre l’interpretazione letterale dei loro costrutti; rispetto a Pizzanelli, le incisioni su rame, realizzate con un nitore concettuale impeccabile e inconfondibile, sono molto di più di una squisita realizzazione ‘materiale’ di un modello ‘mentale’ tramite la puntuale messa in esercizio delle tecniche canoniche; piuttosto, esse svelano e indicano mondi ‘altri’, essendo opere in cui regna un paradosso, quello di essere dominate da uno spirito geometrico produttivo di tratti rigorosi e nondimeno di misteriosi anfratti speculari, per quanto normalizzati dalla logica della duplicazione tipica della grafica come arte; queste sfere speculari sono non-luoghi, aree simboliche eteree e sognanti, e pur sempre indirizzate dal nitore dell’intelletto in alvei sicuri, in quelli rappresentati dai nostri mondi abituali, domestici e ‘civilizzati’, dei giardini, dei pergolati, dei viottoli, delle vedute, delle piccole stazioni ferroviarie e di sosta, degli scorci di borghi e contadi tipici della nobilissima tradizione pittorica e artistica toscana. Questi non-luoghi dischiusi dal quotidiano sono allusivi, simili al rumore di sorgenti nascoste; sospendono la capacità di orientamento, sono spaesanti. Un esperimento, questo, di geografia visionaria, in cui il mito della separazione fra osservatore privilegiato (l’artista/fruitore d’arte che dà nome alle cose), e ‘il’ luogo osservato-descritto univocamente, viene a cadere, a favore di una prospettiva cartografica, e criticamente orientalista. Una cartografia, come la si intende qui, è l’immagine in trasformazione di un territorio che è a sua volta in cambiamento, e in cui i redattori della mappa sono calati nel territorio stesso nel momento in cui la disegnano. Essere orientalisti critici significa che la costruzione di ogni alterità, e l’oriente è quella che da molti secoli è divenuta per noi l’alterità per eccellenza, si riferisce in prima battuta alla coappartenenza indistricabile e vitale fra i due lati, e in seconda battuta alla consapevolezza critica e responsabile che l’alterità/oriente non è mai semplicemente dato, non è mai trovato o incontrato, ma piuttosto è stato fabbricato dall’immaginazione disciplinata dalle scienze occidentali. L’illuminismo di Pizzanelli, essendo consapevole di quanto è stato perpetrato nel passato, e perdura nel presente, non produce affatto la colonizzazione ed espropriazione dei mondi della vita, non annichilisce l’alterità, ovvero il quid indomabile dei molteplici individui e contesti plurali unici, la scintilla dell’individuale/plurale che sfugge al dominio della razionalità strumentale. Mai come in questo caso i confini dei mondi divengono penetrabili, fluidi, morbidi, oltrepassabili e non più ostili; soprattutto si scolorano e cadono le barriere definitorie, quelle che sono state irrigidite per secoli dall’apparato coloniale dei saperi enciclopedici, dalla geografia all’architettura e all’antropologia di epoca coloniale; tale sistema ha fondato, oltre al dominio militare, economico e politico esteso su due terzi del globo, anche il potere linguistico, simbolico ed estetico, il dispositivo egemonico che è stato ancor più pervasivo del primo; l’orientalismo. Tale apparato, appunto, il lato seduttivo ma inesorabile del colonialismo coercitivo, qui non ha voce; non ha vie di accesso nella forma di laccio insidioso che si abbatte come una rete classificatoria sulla miriade di specie variopinte di essere viventi, vegetali, animali, e di culture umane, collocate da noi europei/e occidentali nell’’altrove’ esotico. Piuttosto l’orientalismo diviene erosione di sé dal proprio interno, in modo tale che l’occidente e l’oriente, il domestico e l’esotico, il noi e il loro, non sono più termini reciprocamente escludentesi ma comprensibili e co-originari. Come accade in Palma e glicine, l’opera in cui per chi scrive è forte richiamo allusivo e spaesato, a partire dal ‘qui e ora’ della pianta familiare e primaverile, alle ambientazioni sognanti dell’opera classica per la letteratura di epoca Ming, Il padiglione delle peonie di Tang Xianzu (1550-1616); questa trama, che uno sguardo distratto e stereotipato collocherebbe nell’epoca dell’Inghilterra elisabettiana, inneggia all’adagio per cui l’amore è un tema eterno, non da ultimo nel suo cimento irrisolto con la morte. Forte come la morte è l’amore. La libertà di scelta dell’amato/a e la forza del legame che fa incontrare gli amanti nella morte e perfino oltre non risultano essere proprietà esclusiva di un solo emisfero del globo.
Un paradosso, dunque, l’orientalismo critico che si fa immagine, perché i percorsi sino nitidi e al contempo capaci di evocare nascosti labirinti e luoghi indomabili, protetti da muri ubertosi di fronde morbide e vellutate, fronde che svelano infinite trame di un nero generoso e molteplice, rigoroso e insieme ricco di velature potenzialmente infinite.
Le linee e le immagini che ne derivano, i singoli oggetti d’arte, sono ciò che appaiono senza che resti altro da spiegare, sono un fenomeno originario (J.W. v. Goethe) dal punto di vista dell’esperienza estetica, pur essendo un tipico esempio di opera nell’era della riproducibilità tecnica (W.Benjamin). Possono a buon diritto costituire un tale paradosso; lo sono in quanto proiezioni, prima su lastra e poi su carta, di trame sapienti ideali e archetipe soggiacenti a loro stesse, e rampollano da interconnessioni fra le segnature – i segni e i sigilli nella materia, il rame, l’acido, la carta, che producono effetti visivi – e i significati; le visioni mentali che Pizzanelli vede con l’impiego delle sue facoltà visionarie sono antecedenti, autonome, nonché strettamente determinanti rispetto ai risultati, ma del pari restano consegnate alla propria riproducibilità finita, predisposte a dar vita nel mondo sensibile a risultati uguali a se stessi a partire da un prototipo che l’artista ha decretato come l’unico e il primo. Le copie, lo si sa, sono per definizione duplicazioni ‘autentiche’ e contrassegnate dal nome dell’artefice, che le riconosce come proprie, e al contempo sono ripetizioni di ‘una’ visione del mondo archetipica e pur soggettiva. Nel caso di Fabrizio Pizzanelli questi duplicati non soltanto costituiscono i multipli di una immagine costruita e ‘disegnata’ idealmente allo specchio, ma sono anche le segnature delle cose, le cause che si manifestano senza veli nei fenomeni a cui danno vita. I segni e i sigilli del reale, visibili in filigrana soltanto all’occhio visionario dell’artista, vengono resi accessibili a noi profani dalla visione sinottica, ma chiara e dettagliata, e pertanto lungimirante, che la mente illuminata dello stesso artefice possiede e disvela: la vista simultanea è dei tratti, del disegno, del costrutto, delle proporzioni fra gli elementi chimici, e si innesta fra i tempi e le ‘morsure’ dell’acido sui segni graffiati e incisi con delicatezza sulle lastre di rame. Come nel caso dell’opera chiamata La casa di Sandra che lascia le linee perfette di una panchina e di un muro basso a protezione, e non in antitesi, a una setosa esplosione di palmizi e pini mediterranei. O nell’esemplare unico, stampato con fondino giallo, in cui la verticalità di un nastro/colonna apparentemente netta e nera, ma in realtà ad uno sguardo più attento sgranata e ‘friabile’, delimita e con ciò lascia rampollare ai propri lati fronde di arbusti e piante rigogliose provenienti da latitudini diverse. Questo avviene nella quasi totale, e non casuale, assenza di figure umane, in questa specifica fase, momento in cui Pizzanelli abbandona ed evoca, a partire dal vuoto o dalla mera citazione, il pieno delle biografie e dei ricordi individuali e familiari, che stavano invece a fondamento delle produzioni degli anni Ottanta del secolo passato.
Tale immagine astratta di un ordine perfetto e silente, di una natura antropizzata per sola via poetica, viene proiettata e riprodotta dall’artefice; ma ciò può accadere grazie al senso dell’adeguatezza e al tatto grazie a cui Pizzanelli viene a patti con le striature e gli ispessimenti e gli scarti della materia, in tal modo andando oltre e sublimando l’immediato percettivo e sensoriale, oltre il denso luogo del vissuto materiale che l’artista ha di fronte prima e dopo il processo ideativo. Alchimia e scienza si sono abbracciate, rigore e felicità si sono baciate.
Un segno d’affetto
Alessandro Tosi, Università di Pisa, Direttore Museo della Grafica
Dal catalogo “Quotidiane rarefazioni, acqueforti di Fabrizio Pizzanelli”
Museo della Grafica, ETS edizioni, Pisa 2016
Per l’incisore, il segno è sempre un grande gesto d’affetto. Affonda su sé e sul mondo, intessendo una trama narrativa di connessioni reali o ideali, vissute o sognate, certe o possibili. Nasce dal gesto per diventare scrittura, con un vocabolario – se la lingua scelta è quella, ancor più ricca e difficile, dell’acquaforte – che la lastra e le sue morsure impongono e disciplinano nello spazio del foglio. Può diventare prosa o poesia, ricordo o memoria, sedimentando e strutturando brani di luce e campi di ombre che, nel miracoloso ricomporsi, si diranno sempre paesaggio. E lo sguardo degli altri saprà darne rinnovata lettura, inseguendo e trattenendo le variabili emozionali in un atto di segreta e intima complicità. In un altro gesto d’affetto.
Fabrizio Pizzanelli niente nasconde del mestiere dell’incisore. Artista d’eccezione nel panorama dell’incisione toscana contemporanea, come avrebbero scritto i raffinati conoscitori primonovecenteschi a indicarne da subito originalità di espressione entro significanti coordinate di identità culturale, nelle sue acqueforti riesce a trasmettere il senso della costruzione di un complesso sistema di segni disciplinato in scrittura e l’incanto di una scrittura in grado di originare, per propria forza poetica, ulteriori registri interpretativi. Sono quotidiane rarefazioni di minimi pretesti narrativi sorretti, e dunque espansi, da una mai disattesa “castità grafica” che Carlo Alberto Madrignani individuava come registro primo e portante – e i maestri colgono sempre nel segno.
Presentarne il trentennale svolgimento, in una concezione del tempo comunque di dichiarata sospensione, diventa occasione preziosa per riaffermare i principi fondamentali, e oggi ancor più necessari, dei linguaggi dell’incisione. E insieme occasione per riflettere sul valore, ancor più irrinunciabile, delle condivisioni e delle complicità che una trama di segni può accendere.
Sandra Lischi, Università di Pisa
Dal catalogo “Quotidiane rarefazioni, acqueforti di Fabrizio Pizzanelli”
Museo della Grafica, ETS edizioni, Pisa 2016
Nel 1981 scrissi un breve testo di presentazione per una mostra di disegni di Fabrizio Pizzanelli alla Galleria dei Giorni (uno spazio che, ricordiamolo, a Pisa in quegli anni ha svolto una funzione importante per la conoscenza e la valorizzazione dell’arte contemporanea). Trentacinque anni fa: è d’obbligo il passato remoto.
Ravvisavo in quei lontani paesaggi diafani, dai chiaroscuri e dalle ombre che sembrano virare verso un latteo chiarore, riflessioni sulla traccia fotografica che torna al segno grafico. Si trattava infatti di disegni minuziosi a partire da fotografie realizzate dal nonno pittore, Ferruccio Pizzanelli, a Torre del Lago, fra il 1919 e il 1920.Riprese all’aria aperta, in piena luce, con tagli e inquadrature particolari su cui a distanza di tanti decenni Fabrizio Pizzanelli tornava, ricreandole, lavorando per sottrazione, ma anche in modo analitico. “I disegni – scrivevo allora – sembrano restituire alle immagini una fragilità che è quella del tempo che è realmente passato, una lontananza che rende le figure ombre, fantasmi, tracce. E insieme…sintomi di una ricerca teorica e tecnica presente e attuale, anche se intrecciata con la memoria e la storia”.
A ripensarci oggi, nel guardare le opere della attuale mostra di Palazzo Lanfranchi, mi sembra che l’itinerario di questo artista – che è anche un sapiente percorso fra le varie tecniche, come ben evidenziato negli altri testi di questo catalogo – esplori e ci offra proprio una sorta di vertigine o di compressione temporale. Lì si trattava di ripercorrere a ritroso un tempo della riproducibilità (da quella meccanica a quella pazientemente manuale) rendendo moderne, essenziali e asciutte quelle remote fotografie a loro volta finalizzate alla creazione pittorica; ma in tutta l’opera di Pizzanelli, anche successivamente, è in gioco un dialogo col tempo, e non solo il tempo dei modi di rappresentazione. Qualcosa che ha a che vedere con la distanza, che forse è anche la distanza imposta dalle particolari tecniche artistiche scelte.
Dialogo con epoche passate fatte di palme, platani, glicini, cipressi, talvolta racchiusi in tondi o in ovali; forme senza alcuna retorica o enfasi, che si danno come apparizioni lontane eppure sono segnate dall’oggi. Sono paesaggi asciutti e sobri, in cui rami e fili elettrici sono sullo stesso piano, come i rovi e una vecchia costruzione; e in cui panchine deserte abitano piazze composte, ornate da piante che sembrano appartenere ad altre epoche. Come se qualcosa di antico trapelasse già dalle forme cercate e prescelte e lì, nella rappresentazione, venisse insieme fissato e reso vibrante per noi. Un tratto del Lungarno o un angolo della Cattedrale da Via Santa Maria a Pisa, una piazza di Viareggio o il suo sgombro lungomare; uno scorcio a Marina di Pisa; momenti apparentemente inessenziali, dettagli al margine, rare figure umane in movimenti come sospesi. Il tempo si rapprende e si distende e ci lascia, per come lo sguardo lo inquadra e il segno lo dispone, uno spazio di respiro e di pensiero. C’è qualcosa di scientifico, di poetico e di filosofico nell’arte di Fabrizio Pizzanelli; un dubbio, una cura amorosamente minuziosa; e, anche, un silenzio invitante, necessario.
Intermezzi visivi, impressioni in divenire
Alice Tavoni, Università di Pisa
dal catalogo “Quotidiane rarefazioni, acqueforti di Fabrizio Pizzanelli”
Museo della Grafica, ETS edizioni, Pisa 2016
Le acqueforti di Fabrizio Pizzanelli svelano scenari al contempo densi e dilatati, nutriti da una vegetazione talmente presente da occupare, alle volte, la quasi totalità della superficie dell’opera, in un lirismo insieme urbano e bucolico. Luoghi impreziositi da architetture mai abbandonate al degrado e, solo do rado, attraversati da figure che, inafferrabili, subito svaniscono, rivelandosi per pochi istanti. Comparse i cui tratti del viso restano inaccessibili allo sguardo. Bambini, di spalle, a rincorrersi nel territorio lontano, inespugnabile e giocoso del loro universo esclusivo. Un uomo a passeggio in un ipotetico inverno a Marina di Pisa, imprigionato dentro un cappotto così ingombrante da sovrastarne il volto, non definito neppure in quel minuscolo spicchio di spazio, volutamente bianco, dentro il quale sarebbe stato possibile restituirgli un’identità espressa. E – nell’eco dell’indimenticabile Ragazzo seduto in riva al mare tracciato su zinco da Giovanni Fattori – due figure di fronte all’oceano, immobili, distanti, smarrite quasi in quell’immensa vastità.
In ogni paesaggio di Pizzanelli aleggia un riferimento impalpabile e potente all’idea di negazione, il richiamo a un’assenza annunciata che, come nei giochi d’infanzia, conduce l’occhio a riscoprire, dopo l’attimo dello sconcerto, un divertito senso di sollievo nel recupero di ciò che pareva irrimediabilmente perso. E affiora quasi sempre, seppur non rappresentata, la consolazione del lieto fine. Come nel sentimento di sospensione evocato dalla panchina vuota – nell’opera intitolata La casa di Sandra – sulla quale ci si attende che qualcuno, da un momento all’altro, debba necessariamente sedersi. La fantasia di chi guarda è dunque continuamente invitata – tra archi, gazebi, viali, argini, spiagge, radure – al desiderio istintivo di completare il puzzle con un’ultima rassicurante tessera. O a quello, più audace, di cedere al turbamento varcando il confine inquieto dell’inespresso, addentrandosi idealmente oltre la saracinesca chiusa protagonista dell’incisione Grande glicine e garage.
Nel segno grafico di queste tavole si legge, dal punto di vista tecnico una ‘perizia naturale’ - in un ossimoro solo apparente – dalla quale è intuitivo dedurre la profonda competenza di chi, nato e cresciuto in una famiglia di artisti, sembra aver da sempre respirato i profumi di carte, inchiostri, tempere e pastelli.
Pizzanelli consolida così, nel tempo, la propria separata identità poetica, facendo tesoro degli insegnamenti del nonno Ferruccio – importante artista pisano del primo Novecento che seppe conciliare la vivace partecipazione alla vita culturale della città con continue, stimolanti esperienze nei maggiori centri artistici nazionali e internazionali – e dello zio Leonardo, dal quale apprende la tecnica dell’incisione calcografica. Come pure fondante della sua formazione risulta, parallelamente, la lezione grafica rappresentata dalle opere di Giuseppe Bartolini e di Giordano Viotto.
Dal perfetto equilibrio espressivo che caratterizza ciascuna delle acqueforti esposte in mostra, si evince la solida abitudine a non lasciare niente al caso, calibrando senza fretta ogni scelta, in una paziente dialettica tra ideazione compositiva, elaborazione incisoria e procedimento di stampa.
L’artista giunge alla resa ultima e definitiva di ogni suo lavoro dopo un accorto processo di riflessione e di costruzione grafico/spaziale prodotto su lastre esclusivamente in rame, incise con percloruro di ferro e stampate, con straordinario spirito di collaborazione, dall’amico Umberto Peroni nella stamperia “Atelier Antico Torchio” di Reggello, nei pressi di Firenze. Un rapporto, quello tra Pizzanelli e il suo stampatore, consolidato negli anni, una confidenza amicale e professionale che restituisce, sul foglio, quell’altissimo grado di stabilità narrativa che mai tradisce momenti di cedimento. Pure nel tenue gioco del cromatismo – modulato con ponderata oculatezza – attivato dall’inserimento dei fondini colorati che, anziché alterare l’effetto di sospensione evocativa dell’attimo raffigurato, ne potenziano, se vogliamo, la natura intrinsecamente onirica, amplificandone i contenuti e moltiplicandone le implicazioni.
Una dimensione di attesa non risolta pervade questi panorami, colti nell’intervallo incerto di un esito che sta per palesarsi. E così mi piace aspettare, con curiosità, quali nuove quinte potranno schiudersi nell’inventiva fantastica di Fabrizio Pizzanelli, quali altri scenari vorranno manifestarsi.